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La Moschea: informazione e riflessione

Autore: P. Samir Khalil Samir, SJ

Fonte: Avvenire - 8/12/2000





La Moschea: informazione e riflessione



Mai come in queste settimane si è parlato di moschee in Italia. Eppure sull'argomento continua a permanere una cappa di genericità e approssimazione. L'autore di questo articolo è un cristiano arabo nato in Egitto e insegna all'Istituto islamo-cristiano dell'Université Saint-Joseph di Beirut fondata nel 1875. Ha insegnato islamologia in varie università e l'insegna attualmente a Roma (dal 1975) presso il Pontificio Istituto Orientale e il Pontificio Istituto di Studi Arabi e d'Islamistica (PISAI). In quanto arabo, si considera di cultura musulmana, anche se di fede cristiana. È cittadino italo-egizio.



A. Informazione



1. Quando si discute attorno all'opportunità di costruire una moschea o di concedere terreni a questo scopo, è necessario anzitutto non dare per scontata la conoscenza dell'oggetto della discussione. La moschea non è una chiesa musulmana. È una moschea: ha la sua funzione e le sue norme. C'è una tendenza, dovuta all'ignoranza dell'altro, a pensare che, tutto sommato, l'altro è più o meno identico a me, o almeno simile. Invece dobbiamo riconoscere l'altro come diverso, se non vogliamo mentalmente annetterlo. Perciò si deve guardare all'islam per capire cosa è una moschea.



2. Nella tradizione araba esistono due termini per nominare la moschea: masgid (passato in spagnolo sotto la voce "mosquita" e di là nelle lingue europee) e giâmi'. Quest'ultimo vocabolo è il più diffuso nel mondo arabo-islamico. La prima parola deriva dalla radice SGD che significa "prostrarsi", la seconda dalla radice GM' che significa "radunare". La moschea (giâmi') è il luogo dove la comunità si raduna, per sistemare tutto ciò che la riguarda: questioni sociali, culturali, politiche, come anche per pregare. Tutte le decisioni della comunità si prendono nella moschea. Voler limitare la moschea a "un luogo di preghiera" è fare violenza alla tradizione musulmana.



3. Il venerdì (yawm al-giumu'ah) è il giorno nel cui la comunità si raduna (come l'indica il nome di giumu'ah). Si raduna a mezzogiorno per la preghiera pubblica seguita dalla khutbah, cioè il discorso, che non è una predica. Questo discorso affronta le questioni dell'ora presente: politiche, sociali, morali, ecc. Il venerdì non è un giorno in cui non si lavora, come il sabbato degli Ebrei o la domenica dei cristiani, ma il giorno in cui i musulmani si ritrovano come comunità. Ancora oggi, in Arabia Saudita, il venerdì è un giorno lavorativo; si chiudono i negozi solo all'ora del raduno in moschea a mezzogiorno.



4. In molti paesi musulmani, e per esempio in Egitto, il più popoloso paese musulmano arabo, tutte le moschee sono sorvegliate il venerdì e le più importanti sono circondate dalla polizia speciale. Il motivo è semplice: le decisioni politiche partono dalla moschea, durante la khutbah del venerdì. Nella nostra storia musulmana, quasi tutte le rivoluzioni e i sollevamenti popolari sono partiti dalle moschee. La jihâd, cioè "la guerra sul cammino di Dio" (fî sabîl Allâh), obbligo di ogni musulmano per difendere la comunità, è proclamata sempre nella moschea, alla khutbah del venerdì. In alcuni paesi musulmani, il testo della khutbah deve essere presentato prima alle autorità civile, visto che i nostri imâm (presidi della comunità) sono funzionari statali .



5. È dunque scorretto, parlando della moschea, parlare unicamente di "luogo di culto". Com'è scorretto, parlando della libertà di costruire moschee, farlo in nome della libertà religiosa, visto che non è semplicemente un luogo religioso, ma una realtà multivalente (religiosa, culturale, sociale, politica, ecc.).



6. Non si può dimenticare che il luogo dedicato alla preghiera del venerdì è considerato dai musulmani spazio sacro e rimane per sempre appannaggio della comunità, la quale decide chi ha facoltà di esservi ammesso e chi invece lo profanerebbe. Per questo motivo non si può prestare un terreno per 50 anni per esempio per edificare una moschea; questo terreno non potrà mai essere reso da loro o ricuperato.



7. Esistono spesso nei paesi musulmani, nelle città, dei piccoli "luoghi di preghiera", chiamati di solito musallâ, cioè luogo di preghiera (salât). Sono come delle "cappelle" che possono contenere una cinquantina di persone (più o meno) e che si trovano spesso al pian terreno di una casa, al posto di un appartamento. Questi luoghi, più discreti, sono generalmente utilizzati quasi unicamente per la preghiera del mezzogiorno, permettendo alla gente della strada o dei blocchi vicini di pregare in pace.



8. Le moschee hanno normalmente un minareto (manârah), da dove il muezzin (=mu'adhdhin) fa l'appello alla preghiera (=adhân). Questi minareti hanno una funzione pratica: fare arrivare la voce umana ai musulmani che circondano la moschea, per avvertirli dell'ora della preghiera.

Perciò, al tempo di Muhammad, Bilâl, il primo muezzin della storia, saliva sul tetto della moschea (oppure d'una casa) e chiamava la gente alla preghiera. Durante la prima generazione, non c'era minareto ed è noto che questa costruzione non è una parte essenziale del rituale islamico. Fino ad oggi le comunità wahhabite in Arabia Saudita evitano di costruire minareti per non cadere nell'ostentazione. Storicamente, il primo minareto fu costruito nella anno 45 dell'egira (A.D. 665) dal governatore dell'Irak Ziyâd Ibn Abîh a Basra. Dopo, su ordine di Mu'âwiyah, delle torri furono aggiunte alle moschee di Fustât (il Vecchio Cairo) e d'Egitto, per scopi militari.

Nel corso della storia, i minareti hanno assunto spesso una funzione militare, e sempre una funzione simbolica, di affermazione della presenza musulmana, e talvolta una funzione politica di affermazione della superiorità dell'islam sulle altre religioni. Il loro scopo essenziale originario è di permettere alla voce umana di pervenire a chi abita vicino. Perciò un minareto non potrebbe mai essere molto alto come si fa oggi, perché allora la voce umana non raggiungerebbe i fedeli .



9. In questo secolo, si sono spesso aggiunti dei megafoni nei minareti (soprattutto se c'è una chiesa vicina o un quartiere cristiano), e i muezzin hanno aggiunto altre cose all'appello alla preghiera (adhân) prolungandolo.

Queste innovazioni sono contrarie alla tradizione musulmana (la sunnah) e i Paesi musulmani rigorosi le condannano, come fa l'Arabia Saudita per esempio, anche se la condanna non cambia le abitudine. In altri Stati, come l'Egitto, l'uso del megafono è limitato unicamente all'appello (che dura circa 2 minuti) ed è vietato per la preghiera dell'alba (salât al-fagr), divieto non osservato difatti.

Inoltre, si sta diffondendo in molti luoghi l'uso dei registratori pre-programmati per fare l'appello automaticamente, per evitare al muezzin la fatica di gridare l'appello o addirittura di salire sul minareto. Questa innovazione è considerata dai dottori della legge come contraria alla Tradizione, ma tollerata.



10. Infine, è necessario chiedersi chi finanzia tale moschee o centro islamico, non per intromettersi negli affari altrui, ma in virtù del principio universale che dice "chi paga comanda". Non è un segreto per nessuno che gran parte delle moschee e centri islamici d'Europa vengono finanzati da governi estranei, in particolare dall'Arabia Saudita, che impone anche i suoi imâm. Ora, è ben noto che nel mondo islamico sunnita l'Arabia Saudita rappresenta la tendenza più rigida, detta wahhabita (da 'Abd al-Wahhâb, 1703-1792). Non sono questi imâm che potranno aiutare gli emigrati ad inserirsi nella società occidentale, né ad assimilare la modernità, condizioni necessarie per una convivenza serena con gli autoctoni.



B. Riflessione



Dopo avere chiarito l'oggetto della discussione, ci permettiamo qualche elemento di giudizio.



1. Permettere ai musulmani di avere dei luoghi di preghiera in Occidente va da sé. Sarebbe probabilmente più adatto al contesto sociologico degli emigrati (che rappresentano la stragrande maggioranza dei musulmani in Italia) di avere dei musallâ, ossia delle "cappelle" dove potrebbero ritrovarsi più comodamente per pregare. Sarebbero anche meno costose per loro. Rimane un rischio: la moltiplicazione dei piccoli luoghi di preghiera rende più difficile il controllo sull'insegnamento che vi si dà.



2. La moschea, in quanto centro socio-politico-culturale musulmano, non può entrare nella categoria dei "luoghi di culto". Deve essere esaminata come tale. Alla pubblica amministrazione spetta studiare come esercitare un certo controllo su tali centri, vista la loro funzione politica tradizionale. Non si capisce bene invece in base a quale ragione il comune dovrebbe regalare il terreno o una parte della costruzione.



3. L'opposizione che si vede un po' dappertutto in Europa riguardo alla edificazione di moschee può provenire dalla xenofobia, ma è anche probabile che derivi dal timore che essa sia un atto politico di affermazione di una identità diversa sotto tutti gli aspetti, troppo straniera alla cultura e alla civiltà occidentale. E questo mi sembra anche vero, com'è accertata l'ambiguità dell'espressione "luogo di culto" trattandosi di una moschea.



4. Se un tale centro musulmano potesse aiutare gli emigrati ad integrarsi nella società italiana locale e nazionale, con dei corsi adatti ed altri servizi, sarebbe da incoraggiare, lo scopo essendo di costituire insieme, emigrati e autoctoni, una società comune e solidale. Potrebbe essere incoraggiata (anche materialmente) la costituzione di gruppi o associazioni misti, costituiti da emigrati (musulmani e non musulmani) e autoctoni, per rinforzare l'integrazione dei primi nella società italiana e l'apertura dei secondi agli emigrati. In particolare, i gruppi di volontari e le parrocchie potrebbero avere una funzione importante da svolgere in questo campo.



5. L'edificazione dei minareti è diventata un uso assai diffuso nel mondo islamico. Nondimeno non corrisponde alla tradizione musulmana autentica e non è mai stata auspicata dal Profeta stesso. Aveva uno scopo politico e militare. Perciò è da chiedersi se ha ancora senso nel contesto occidentale. Quanto all'uso dei megafoni è certamente contrario alla tradizione musulmana autentica, oltre ad essere assolutamente opposto alla tradizione occidentale. Il parallelo che viene spesso fatto con le campane non sembra essere corretto per vari motivi troppo lunghi a spiegare in questa sede.



6. Tenendo conto della tradizione musulmana multisecolare di non distinguere religione, tradizioni, cultura, vita sociale e politica, sembra importante che i responsabili a) s'informino bene per operare queste distinzioni; (b) siano molto attenti a non incoraggiare la politicizzazione (sotto qualunque forma) dei gruppi d'immigrati (musulmani e non musulmani).



7. Infine, è utile notare un piccolo particolare: secondo i dati ufficiali, gli immigrati musulmani rappresentano circa il terzo di tutti gli immigrati in Italia. Eppure, fanno parlare di loro molto più che i due terzi degli altri immigrati. È doveroso chiedersi perché.

Mi sembra che il motivo sia proprio la tendenza dei musulmani a politicizzare la loro presenza, a renderla visibile (sia per tendenza naturale, sia perché esistono delle lobby potenti di musulmani italiani o stranieri). Ed è questa politicizzazione e questa tendenza all'affermazione della loro identità come diversa dagli altri che suscita le reazioni di rigetto o di rifiuto. Non sarebbe più conforme agli interessi dei musulmani stessi di cercare a vivere la loro vita (e la loro fede) in maniera discreta ed integrata?



C. Conclusione



Insomma, da ciò che abbiamo detto si possono trarre alcune conclusioni.



1. Tenuto conto della natura polivalente (e spesso politica) della moschea nella tradizione musulmana, l'erezione di moschee, contrariamente a quella delle chiese, può essere un atto politicamente ambivalente. Potrebbe favorire il contrasto tra la popolazione musulmana (spesso costituita da immigrati) e quella non-musulmana (generalmente costituita da italiani autoctoni), oppure favorire l'integrazione della popolazione musulmana nel tessuto della società italiana.

Perciò, tocca alle autorità civili italiane discernere, caso per caso, le chances di successo di questa seconda ipotesi, e enunciare le condizioni (col dovuto controllo regolare) che favoriranno la realizzazione di questo scopo, cioè che la moschea serva ad aiutare i musulmani ad integrarsi nella loro nuova società.



2. Questo potrebbe essere fatto con diverse misure concrete:



incoraggiando corsi di lingua italiana (anziché di lingua araba);



assicurando servizi sociali per aiutare gli emigrati ad avere una vita più dignitosa e più integrata;



offrendo servizi particolari alle donne, visto che spesso non si mescolano agli incontri misti, ma incoraggiare nello stesso tempo la loro integrazione in una società mista;



esigendo la distinzione tra Centro culturale e Luogo di preghiera;



controllando la khutbah (spesso tradotta erroneamente con "predica") fatta nel quadro della preghiera di mezzogiorno del venerdì;



assicurandosi che la distinzione fondamentale in Italia tra religione e politica sia fatta, e aiutando la comunità musulmana a fare questa distinzione.



3. Nell'autorizzare la costruzione di una moschea è ragionevole tener conto dei cittadini musulmani della zona in questione, per decidere della sua dimensione. Non sembra invece ragionevole tener conto dei non-cittadini, cioè di chi non ha fatto l'opzione di vivere in questo paese e di impegnarsi ad assumerne tutte le conseguenze.



4. In fin dei conti è bene ricordarsi lo scopo ultimo: creare una comunità solidale tra gli italiani e chi vuol diventare italiano, accettando le conseguenze culturali, sociali e politiche. Non si tratta di escludere chiunque per razzismo o fanatismo, ma si tratta di non rinunciare alle proprie radici in nome di una pseudo-tolleranza o di una multiculturalità senza discernimento.



Sulla funzione politica della moschea si possono consultare i tre libri (in arabo) dello scrittore libico Al-Sadek Al-Nayhoum, nato a Benghazi nel 1937, emigrato a Genova nel 1976 ove ha insegnato all'università le religioni comparate e vi è morto nel novembre 1994. I suoi libri sono attualmente vietati in Libano, ma ristampati in Siria nel 2000 dalla casa editrice libano-inglese Riad El-Rayyes Books: ISBN 1-85513-125-0, ISBN 1-85513-228-1 e ISBN 1-85513-278-8. Il primo è intitolato Al-Islâm fî al-Asr: Man Saraqa al-Gâmi' wa-Ayna Dhahaba Yawm al-Gumu'ah?, cioè: L'Islam imprigionato: chi ha rubato la moschea e dove è andato il venerdì?

Si veda anche il libro molto preciso dell'algerino Ahmed Rouadjia nato nel 1947, già professore a Constantine e istallato ormai a Parigi, che analizza la moltiplicazione delle moschee in Algeria dagli anni 1970 in poi e l'influsso che hanno avuto sulla radicalizzazione dell'Islam e sulla diffusione delle tendenze islamiche (cioè fondamentaliste combattive): Les Frères et la Mosquée. Enquête sur le mouvement islamiste en Algérie (Parigi, éd. Karthala, 1990). Il libro è stato tradotto in arabo da Khalil Ahmad Khalil e publicato a Beirut nel 1993 da Dâr al-Muntakhab al-'Arabi, sotto il titolo: Al-Ikhwân wa-l-Gâmi'. Istitlâ' li-l-harakah al-islâmiyyah fî l-Gazâ'ir.



Su tutto questo si può consultare comodamente l'articolo Manâra della Encyclopédie de l'Islam, 2a ed., vol. III, p. 345b - 355a (pubblicate nell'anno 1987).